Il peso delle parole

Pubblichiamo un testo di un nostro studente, Lorenzo Cappelletti, sensibile ai libri e alla scrittura, che ci ha inviato queste righe, intitolate: Il Peso delle Parole.

Soffia il vento tra i capelli ed io m’immagino lì, su uno scoglio della Sardegna. Terra lontana della mia infanzia perduta, neanche troppo malinconica né piena di nostalgici ricordi, meta solo di qualche effimero e fugace viaggio di vacanza insieme ai miei genitori. È uno scoglio isolato, piccolo in mezzo al mare. Io guardo l’orizzonte come un uomo romantico guarda il vuoto di spalle; e così tanto mi si riempie l’animo d’infinità, che vorrei caderci dentro e superare quell’imperscrutabile linea che separa il blu intenso delle acque marine dall’azzurro chiaro del cielo e dal bianco di qualche nuvola sparsa. Penso che non resisterei un minuto lì, fermo, a guardare me stesso nella mia testa. Penso che se fossi in grado di volare cercherei di raggiungere un mondo magico, il mondo degli uccelli, ciò che sta sopra quei morbidissimi cuscini di vapore acqueo, dove la pioggia non cade mai, dove la neve è ferma e i fulmini sono di ghiaccio. È il colore che apre le porte a quel paradiso, in particolare il rosa. E io resterei sullo scoglio solo per quello, aspetterei il tramonto solo per camminarci sopra, saltellare qua e là senza pensieri. Senza pensieri, sì. Perché il sole diventa rosso, il mare bianco, il cielo viola, arancione, giallo e le nuvole rosa. Le nuvole diventano rosa ed io non penso più a niente, e loro si trasformano in un letto di piume riscaldato dagli ultimi raggi intrepidi che superano il confine della notte. Così io mi appisolo con il cuore sepolto dalla bellezza e con la luna che mi guarda anche di giorno.

La luna mi guarda da anni ormai, è come il sigillo della mia anima. C’è come un legame non scritto e silenzioso fra me e lei. Come se la sua luce fosse un filo di polvere magica – del mondo magico degli uccelli – che mi lega l’indice alla sua totalità; ed io la porto con me come un palloncino, il mio palloncino celeste. Quando scrivo lei è lì ed io sono sul mio scoglio. Lì, per togliermi il peso dal cuore, lo rovescio sgarbatamente su questi testi vacui, provenienti dal più profondo segreto della miseria umana che ci tiene accapigliati alla vita come cozze in riva al mare, sbattuti e percossi violentemente dalle onde del tempo. Lì posso distendere i nodi della mia anima, posso sedermi, sdraiarmi, e immaginare. E con l’immaginazione sollevarmi da terra. Rendermi leggero, più leggero del vento, e con lui andare a dissolvermi, e con gli uccelli volare nel loro mondo magico, e con le parole far scivolare il mio peso nel mare, nell’abisso del male in cui si cela il diavolo dell’amore. Come ossa di scheletri alle quali lego il mio fardello, io faccio affondare le parole in un’acqua scura, fino a che non raggiungono la sabbia e si stampano nell’eternità per sempre. Così, mentre l’oceano diventa nero, io riesco a voltare la faccia e guardare in alto, e così riesco a mettere le ali.

Ogni scrittore ha il proprio scoglio – o qualunque cosa sia – dove riesce a volare. E con scrittore non intendo vossignoria illustre letterato plurilaureato che riesce lodevolmente a comporre saggi di mille pagine spiegando il perché dell’universo… intendo chiunque voglia umilmente condividere sé stesso tramite un’opera, esprimere il suo pensiero riguardo qualche argomento o, per l’appunto, scaricare il proprio peso sulle parole. Chiunque può scrivere e ogni forma di scrittura è nobile. Sia che sia frutto della pura immaginazione, sia che provenga dal pensiero, dalla ragione, o si presenti in una forma un po’ zoppa, ma piena di un insostenibile e gravoso sentimento.

Per questo il mio obiettivo è incanalare la gravità di un tale macigno in una quantomeno comparabile dimensione estetica. È un processo personale ma può essere considerato sia dal punto di vista del creatore, sia da quello del ricevitore. Ti porta in luoghi sconosciuti. Devi sognare. Devi immaginare la prima cosa che ti viene in mente: una barca a vela. È così che funziona e da lì si parte. È uno sviluppo graduale che fai con te stesso. È un catturare la potenza creativa del tuo cervello in qualcosa di solido, di modo che non scappi. È arte. E se tu immagini qualcosa di bello, di così bello da farti commuovere, da lucidarti gli occhi di una rugiada purificatrice, quel bello scivolerà naturalmente nelle tue frasi insieme al peso della tua anima. È un pezzo di anima che si stacca e porta con sé quello che le attribuisci, e tu lasci un pezzo di te stesso nel testo. Così si costruisce un impero, un impero che sei tu. Tanti piccoli pezzettini che considerati nella loro interezza compongono il tuo essere. E chi li guarda, ti vede, e può percepire il peso della tua voce che parla attraverso le lettere proprio perché ce l’hai messo tu. Così ti mischi con gli altri, e loro con te. Così ci mischiamo e ci mescoliamo con i pezzettini dell’anima degli altri. Ci incontriamo in mare e ridiamo, parliamo, discutiamo, giochiamo, piangiamo, ci arrabbiamo e ci abbracciamo. Come se ci affidassimo l’un l’altro la pesantezza della nostra esistenza, e così facendo, leggiadri, ci elevassimo al di sopra delle nuvole. Dove spargendo le nostre lacrime sul mondo sperando di renderle felici, a nostra volta diventiamo lacrime sparse che in un nuovo universo vagano alla ricerca della felicità. Che non importa da quali occhi siamo cadute, non importa da quali nubi siamo scese, siamo un fiume di parole rimaste appese a uno scoglio, non ancora affondate in mare.

Lorenzo Cappelletti